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HO LA
DEPRESSIONE DANCALA!
27-28 Dicembre,
Awash
Del lungo volo che da Milano mi porta ad Addis
Abeba, con il solito lungo scalo tra i cammelli di pelouche dell’aeroporto
del Cairo, c’è poco da ricordare se non la stanchezza che si è accumulata
come ogni anno all’avvicinarsi delle festività natalizie e lo stress
residuo della valigia e dello zaino da riempire. Alla 3 di mattina siamo
tutti in fila per farci rilasciare il visto di ingresso in Etiopia, previo
il pagamento di 20 $ ad una addetta che con flemma tutta ministerial-
africana mi consegna la ricevuta ed applica un bel talloncino adesivo
sulle pagine vuote del mio passaporto. All’uscita dell’aeroporto,
ricompattato il gruppo, ci accoglie l’ultimo spicchio di una luna africana
comodamente adagiata con la gobba in basso, ed un minivan che ci porta a
pochissime centinaia di metri, in un albergo dal nome pretenzioso di
Ambassador. Nonostante la stanchezza cronica non si può andare a letto
senza prima aver carpito la password del
wi-fi,
per
riconnetterci con i nostri
smartphones a tutto quanto ci siamo separati da poche ore. Al mattino,
dopo la colazione a buffet, ci ritroviamo al settimo piano , in una bella
sala conferenze per il briefing del capo Max, ed espletate tutte le ultime
formalità burocratiche e cambiati 50
€
in Birr, la moneta locale, ci
dirigiamo verso l’ufficio di Jonas, il titolare dell’agenzia Belle
Abyssinia , che ha organizzato la spedizione in Dancalia e ci fornisce
4
Toyota sulle quali siamo sistemati noi 13, più una quinta di appoggio con
tutte le provviste ed il materiale per la logistica. Alle 10,36 in punto,
ora locale siamo finalmente in marcia per le vie trafficate di Addis
Abeba, tipica capitale del terzo mondo, con tanto disordine, palazzoni in
costruzione, ponteggi fatti di pali storti di legno, ed una colorata ed
affaticata umanità che vive e lavora ai margini delle strade. Percorriamo
la strada trafficatissima nella comoda e spaziosa Toyata, io, Lia ,
Maurizio ed il nostro giovane autista che si chiama Habte, viene dalla
regione del Tigrai e parla un più che discreto inglese. La città si
estende in maniera indefinita, continua e caotica tra lunghe file di
camion e le cupole di chiese cristiane, che oggi sabato sono prese
d’assalto da centinaia di fedeli in particolare quella di san Gabriele, il
santo patrono, protettore della chiesa di Etiopia. Il paesaggio è monotono
e poco interessante ed il traffico di camion ci accompagna fino alla città
di Nazret, la terza città dell’Etiopia per numero di abitanti dopo la
capitale e Makallé; Nazret, che come ci dice Habte, si chiama Adama in
lingua oromo , è una città moderna ed abbastanza ordinata, con un grande
viale dove ci fermiamo a mangiare in un bel ristorante con giardino.
Qui
bevo la mia prima birra in terra etiope, la St. George, sulla quale come
nei carrugi di Genova, campeggia san Giorgio a cavallo che trafigge il
drago. Alle 15,30 riprendiamo la marcia, mentre il paesaggio diventa molto
più bello e vario, con grossi cumuli vulcanici, acrocori, piantagioni di
cotone che si alternano con il tipico panorama del
bush, della savana africana. Si
nota un grosso processo in corso di ammodernamento delle infrastrutture,
ad opera dei cinesi che sono i nuovi colonizzatori dell’Africa, strade in
cambio di materie prime; incrociamo pezzi di autostrada ed una nuova
ferrovia che dovrà sostituire quella vecchia, costruita da i francesi, che
è stata dismessa; lungo la strada tanti venditori di frutta, soprattutto
grosse angurie; anche i nostri autisti si fermano più volte a fare
rifornimento di frutta, per fare delle scorte in previsione delle
necessità dei prossimi giorni. Giungiamo in prossimità di un grande lago
salino, che Habte dice essere il lago Koka, anche se dalla cartina
sembrerebbe essere il lago Basaka; imbocchiamo la nuova strada, osservando
la vecchia che correva a bordo lago ed in parte ne è stata inghiottita a
seguito dell’aumento del livello del lago. Ci fermiamo di nuovo a comprare
la frutta in un villaggio che dovrebbe chiamarsi Metahara, e scendiamo
proprio difronte ad una bancarella che vende il qat fresco, che mi sembra
diverso ai quello che avevo visto un po’ ovunque in Yemen,
in grossi sacchi bianchi. Mi viene subito
offerto da comprare
da persone molto sorridenti e
piacevolmente divertite dalla situazione, ma declino gentilmente l’invito.
Siamo ai margini della regione Afar e sulla strada che sta scendendo
rapidamente di quota, si affacciano
pastori
e le tipiche capanne a forma di cupola. Alle 17,40 facciamo l’ingresso al
parco nazionale dell’Awash, mentre il disco rosso del sole comincia la sua
discesa verso la linea dell’orizzonte. Ci imbattiamo subito in tre grossi
orici e percorriamo la strada fino al lodge, situato in prossimità delle
famose cascate del parco, nella gola dove scorre il fiume Awash,
il più lungo dell’Etiopia che finisce poi
per perdersi nella depressione della Dancalia, senza riuscire ad arrivare
al mare. Prime foto al tramonto e ci sistemiamo in camera al lume di
candela, essendo il lodge sprovvisto di elettricità. Cena alle 20 in un
bel contesto , un po’ troppo turistico, con contorno di danzatori Afar ,
sotto una stellata, questa sì veramente autentica e mozzafiato.
29 Dicembre, Afrera
Lunga
giornata di trasferimento verso nord: sveglia alle prime luci dell’alba,
colazione nel bel ristorante del lodge, con vista cascate, che consta di
una omelette un po’ scarsina e salutato lo struzzo che scorrazzava tra i
bungalow, alle 7 e un po’, siamo in marcia, macchina numero 3 con Enrico e
Monica. Il nuovo autista, a differenza di quello del giorno prima, è
estremamente silenzioso e riservato, forse semplicemente non parla
inglese. Riprendiamo la trafficata strada per Gibuti, tra baracche di
lamiera e babbuini. Il numero di camion che circolano è enorme, e dopo
pochissimo rimaniamo intrappolati nel traffico di un grosso ingorgo, in
prossimità di enormi lavori di costruzione di una nuova strada che
costringono a transitare su un ponte a senso unico alternato. Perdiamo più
di un’ora a causa dei lavori in corso, ma ci consoliamo guardando in senso
contrario lo spettacolo di tutti i mezzi e le persone che ritornano dalla
grande festa di San Gabriele, che ha avuto l’epicentro nella cittadina di
Kulubi, dove si trova il più importante santuario dedicato all’Arcangelo.
Le macchine e gli autobus dei pellegrini sono addobbati con fiori, croci e
le bandiere delle rispettive regioni di origine. Siamo di nuovo in marcia,
sulla lunga striscia di asfalto nuova di zecca che corre infinita
tra bassi cespugli spinosi; poco prima
delle 11 ci fermiamo per una sosta caffè in un localino di passaggio, con
annessa sala bigliardo e una televisione che trasmette il notiziario
locale; tutto intorno mercato di stracci e umanità varia di bambini
curiosi, pastori e donne colorate. Si riprende il viaggio tra file
interminabili di grossi sacchi di carbone marroni, con la punta conica
bianca; si alternano paesaggi vulcanici con prati gialli, cumuli lavici,
grosse pietre nere e piccoli laghi. Alle 14,30 sosta pranzo al
Nazret restaurant, con la quota altimetrica che sta rapidamente
diminuendo e le temperature che stanno di conseguenza salendo: il menù
prevede spaghetti o capra, che ci viene portata in una grossa padella, a
piccoli pezzi guarnita con cipolle, una vera prelibatezza. Alle 16
ripartiamo e dopo un’ora lasciamo la Gibuti road e svoltiamo a sinistra;
pochi mezzi e pochissime persone sulla strada, dall’aspetto poverissimo,
che salutano al passaggio delle nostre macchine; giovanissimi pastori e
pastorelle, ignari abitanti di questa sperduta parte del mondo, chissà
cosa si prova a crescere e vivere in questa landa infuocata, e chissà cosa
pensano di questi buffi signori che si spingono fin qui, sfrecciando
nei loro comodi fuoristrada! Tutto
intorno la natura sta cambiando e l’unico aggettivo che mi viene in mente
per descrivere il paesaggio è lunare, pianure di lava e montagne che si
stagliano nitide sul cielo rosato del tramonto, dove vedo apparire la
lucente stella di Venere. Poi all’improvviso piomba il buio e continuiamo
la nostra lunga traversata di avvicinamento al lago Afrera.
Alle 19,30, attraversiamo un piccolo
paese di baracche, piuttosto animato, al termine del quale intravediamo
una sorta di piazzola di terra battuta, dove sono state montate le tende e
allestita la cucina da campo : tutti a cena , spaghetti sotto le stelle.
30 Dicembre, Erta Ale
La notte in tenda è passata tutto sommato bene,
e come mi alzo vedo Enrico che è appena tornato da un bagno nelle acque
termali subito dietro il campeggio: in due secondi sono in costume e mi
metto a mollo nella pozza calda adiacente le acque increspate del lago.
Che libidine stare immersi nell’acqua caldissima; oltre a una buona metà
del nostro gruppo ci sono anche i locali che ne approfittano per lavarsi e
farsi lo shampoo. Dopo un inizio di giornata così piacevole ed inatteso,
andiamo ad esplorare i dintorni del lago Giulietti, ribattezzato Afrera,
posto ad oltre centoventi metri sotto il livello del mare, leggermente
increspato dal vento,
dal colore un po’ livido e dalla schiuma
salina. Intorno al lago esistono molte vasche per la raccolta del sale,
che costituisce la principale fonte di sussistenza delle zone. Intorno
alle vasche grossi cumuli bianchi, intorni ai quali si affaccendano uomini
con carriole colorate per trasportare il prezioso minerale dalle vasche
dove è rimasto per decine di giorni ai cumuli, dove viene insaccato e
caricato sui camion che percorrono la strada asfaltata costruita dai
cinesi. La temperatura sale implacabile, siamo già ben oltre i trenta
gradi, e conferisce un aspetto da girone dantesco a tutta la scena, che
comunque ben si presta agli scatti dei fotografi. Alle dieci in punto
partiamo, macchina numero 2 con Enrico e Lia, autista Ashu, giovane e
loquace. Ci fermiamo dopo pochi metri nel villaggio di Afrera, per gli
ultimi acquisti logistici necessari per la salita al vulcano Erta Ale. Ci
gustiamo l’ultima coca cola gelata, servita da una bella ragazza, che
esaurite presto le sue scorte va dalla vicina a barattare Fante con Coche.
Dopo pochi km finisce la strada asfaltata e superato un posto di blocco,
svoltiamo a destra nella piana dei vulcani. Ashu guida sicuro il suo
fuoristrada sugli sterrati e sui sentieri di lava, mentre all’orizzonte
incombe la sagoma di una grossa montagna. Il termometro della macchina ha
già superato i 38 °C , e mi domando cosa mi abbia spinto a venire fino
qui, a fare le vacanze di Natale in quello che viene definito uno dei
luoghi più inospitali del pianeta, la mitica depressione della Dancalia,
ancora inesplorata agli inizi del novecento. A mezzogiorno arriviamo al
punto di controllo per espletare le formalità burocratiche, e registrarsi,
considerando che siamo vicinissimi al confine con l’Eritrea, in una parte
di mondo assai turbolenta. C’è un agglomerato di baracche con bambini che
chiedono quaderni e povertà tangibile ad ogni passo: entriamo in una
capanna e ci sistemiamo su dei materassini, dove tra sciami
implacabili di mosche ci servono il
pranzo, riso con verdure che trangugio con gusto. All’una ripartiamo per
l’ultimo tragitto, tra spianate di lava e cammelli erranti, senza alcuna
traccia di vegetazione, fino alle 15,15 quando arriviamo al campo base.
Jonas va ad organizzare la spedizione, in particolare i cammelli che
servono a trasportare tutto il materiale necessario fino al cratere del
vulcano, e che servono anche da mezzo di locomozione a chi dovesse avere
difficoltà nella salita. Il caldo è asfissiante e l’ambiente davvero poco
invitante, tra baracche, sporcizia e militari che girano con il
kalashnikov; i preparativi si dilungano oltre il previsto, e facciamo in
tempo a fare uno spuntino prima della salita, il cuoco ci ha preparato un
bel brodino caldo di verdure. Finalmente alle 18 ci mettiamo in cammino, e
dopo poco è subito buio e saliamo solamente con la luce delle nostre torce
portatili, come dei minatori. Abbiamo anche una scorta armata, un
ragazzino magrissimo con ciabattine verdi di plastica e kalashnikov in
spalla. La salita non è particolarmente faticosa, il dislivello è molto
dolce, in fondo il cono dell’Erta Ale è a soli 588 metri sul livello del
mare: camminiamo con la carovana di cammelli al seguito nel buio più
completo, non c’è neanche la luna, ma solo Orione che risplende luminoso e
nitido proprio davanti a noi e ci guida come la cometa con i re Magi. La
strada è una colata solidificata di lava, che nell’ultimo tratto sale più
rapidamente e si impenna per raggiungere dopo tre ore e un quarto dalla
partenza un piccolo agglomerato di capanne dove sono di stanza i militari
che presidiano la zona e dove trovano riparo i turisti che si spingono
fino a quassù. Alla fine del l’insediamento appare la vista sul cono del
vulcano che fuma e
risplende
di bagliori di rosso! Grande spettacolo della natura, emozione ancestrale
del fuoco che arriva direttamente dalle viscere della terra. Prima di
scendere al vulcano dobbiamo rifocillarsi con una pasta fredda e scotta
servita accanto agli escrementi caldi e fumanti dei cammelli: anche questo
sarà un momento magico da ricordare! Rompiamo gli indugi, e vista
l’impossibilità di campeggiare a ridosso del vulcano, scendiamo nella
piana della caldera, con la lava solida che cede e scricchiola sotto i
nostri passi. Giungiamo sul bordo del vulcano rapiti dallo spettacolo
grandioso del fuoco e del magma bollente che ribolle a pochi metri sotto i
nostri occhi, nel cerchio perfetto del cratere dell’Erta Ale. La
temperatura e l’odore acre dei vapori di zolfo sono praticamente
insopportabili, ma spostandosi lateralmente tutto cessa per incanto.
Rimango in contemplazione per più di un’ora della lava che schizza, si
solidifica, si fessura ed esplode di nuovo con violenza e con bagliori di
luce rossa che rompono il buio della grandiosa notte africana. Con questo
spettacolo negli occhi ce ne andiamo a dormire sul lercio pavimento di
terra delle nostre capanne.
31 Dicembre, Ahmed Ela
Appena svegliati all’alba scendiamo subito al
cratere del vulcano, per ammirare di nuovo lo spettacolo della lava mentre
ad oriente comincia a farsi chiaro ed il sole sorge dalla spianata di lava
dell’Erta Ale; con la luce del mattino il ribollire del magma fa meno
paura rispetto alla sera precedente, ma l’apparire del rosso infuocato dal
grigio della lava solidificata è sempre uno spettacolo emozionante. Alle
8,15 prima che le temperature diventino insopportabili, cominciamo la
discesa di ritorno al campo. La camminata è molto agevole, e possiamo
ammirare tutti i panorami che la notte aveva nascosto; il caldo comincia
ben presto a farsi a sentire ma dopo 2 ore e mezza di cammino sono in
arrivo al campo base, dove ci accoglie il cuoco Michi con fette di anguria
fresca, ma cosa ancora più gradita è stata montata una doccia da campo,
mettendo un serbatoio d’acqua sul tetto di una Toyota: Mi metto subito in
mutande per togliermi di dosso la polvere e gli odori di questi due
giorni. Nel frattempo che ci laviamo tutti, i ragazzi dello staff
apparecchiano la colazione sotto un tendone che viene teso fra due
macchine, e ci rifocilliamo con dell’ottimo pancake caldo e pane fresco.
Alle 14 saliamo di nuovo in macchina, per
percorrere la strada lavica dell’andata e poi fuori pista su della bella
sabbia bianca dove gli autisti si lanciano a correre nel deserto. Alle 17
ci fermiamo per una merenda con l’ultima busta di parmigiano portata
dall’Italia e alle 18 giungiamo al villaggio di Ahmed Ela, alla fine del
quale ci accampiamo. Siamo sulla strada principale intorno ad una capanna
che funge da cucina; ci vengono portati dei lettini di vimini, che
fungeranno da giaciglio per due notti. Intanto che scarichiamo i bagagli e
ci sistemiamo nel campo vediamo passare sulla strada una interminabile
fila di cammelli e di asini, una lunghissima carovana del sale! In realtà
le carovane sono due, che vanno in direzione opposta; i cammelli e gli
asini che arrivano dalla direzione del paese sono carichi di piccole
lastre di sale, ben fasciato e protetto. In testa ed in mezzo alla
carovana pastori afar che camminano con un lungo bastone messo orizzontale
dietro la schiena e con le braccia sopra appoggiate. Comincia a far buio,
e preparato il sacco a pelo per la notte, mi accorgo che subito dietro la
capanna stanno sgozzando un capretto per la nostra cena di Capodanno, che
con grande maestria viene appeso, eviscerato e preparato per la cottura.
Siamo tutti di buon umore, l’ultima cena dell’anno in Dancalia è
sicuramente qualcosa fuori dal consueto : il capretto in umido preparato
da Michi è veramente una prelibatezza. Vino e dolci portati dall’Italia,
il rum e qualche canto sotto le stelle. Alle 11 mi sdraio sul mio
giaciglio à la belle étoile!
Buon anno!
1 Gennaio, Ahmed Ela
Sveglia quando ancora è tutto buio, e partenza
per la piana del sale; pochi kilometri in fuoristrada e mentre il sole
albeggia fra le nuvole scorgiamo nella pianura sterminata la prima
carovana del sale; è emozionante sotto i raggi del sole che filtrano dalle
nubi osservare le sagome lontane sull’orizzonte di decine di cammelli in
fila ordinata, legati l’uno con l’altro con una corda come fosse il filo
di un ricamo. La piana del sale è una distesa di seicento chilometri
quadrati, a 110 metri sotto il livello del mare, formatasi
dall’evaporazione del Mar Rosso venti o trentamila anni fa che ha lasciato
una crosta spessa di cloruro di potassio e di sodio. Sembra un infinito
campo di hockey su ghiaccio, senza alcuna vegetazione o un minimo segno di
antropizzazione, neanche un palo della luce! Il sale, che viene usato
principalmente per il nutrimento degli animali da pascolo è da sempre
l’oro di questa regione, e viene estratto qui per essere trasportato a
dorso di animale nei ricchi e freschi mercati dell’altopiano etiope.
Vediamo migliaia di uomini, afar e tigrini, al lavoro sotto il sole,
secondo una divisione certosina dei compiti, che probabilmente è immutata
da secoli. La crosta di sale viene dapprima fessurata con delle asce, dopo
di che entrano in azione due o tre uomini che infilano dei lunghi bastoni
nodosi nelle fessure, e con gran sforzo e tensione di muscoli riescono a
distaccare e capovolgere pezzi di crosta compatta. Infine entrano in
azione gli scalpellini, che con i piedi piantati in terra e il sedere
chinato a sfiorare i talloni, intagliano con precisione certosina e minimo
scarto, blocchi rettangolari del prezioso materiale che vengono impilati e
legati accuratamente.
I cammelli ed i muli, che possono
resistere nel deserto anche venti giorni senza acqua, sono pigramente in
attesa di essere caricati per il loro lungo viaggio verso l’altopiano,
pronti a disporsi ordinatamente in fila come delle
mannequin sulla passerella. La
crosta si spezza e si riduce in blocchi per chilometri, senza soluzione di
continuità, tra migliaia di uomini che si muovono ordinati come delle
formiche laboriose . Sento una sorta di pudore di fronte a queste
condizioni lavorative ataviche e disumane, mentre Jonas e i nostri autisti
distribuiscono gli occhiali da sole che su sua indicazione abbiamo portato
dall’Italia: il riverbero della luce su questo biancore infinito finisce
per rendere quasi ciechi gli intagliatori di sale. A mezzogiorno partiamo
per le piramidi del sale, dette anche le colonne della Dancalia, dove
viene organizzato il pranzo, anche se la maledizione di Montezuma comincia
a colpire. Tafari, detto tough,
ci dice che quando si mangia la carne di capra ci si deve depurare in
quanto la capra mangia i serpenti. Facciamo un piccolo trekking nella
zona, tra formazioni rocciose bizzarre, pinnacoli, colonne di pietra
salina in una specie di canyon da Far West sotto l’occhio inquieto di
militari in mimetica e kalashnikov, che ci seguono ovunque. Entriamo
dentro una grotta piena di strane concrezioni dendritiche al centro della
quale c’è una pozza d’acqua cristallina. Alle 16 partiamo verso l’ultima
destinazione, il mitico Dallol, il luogo degli Spiriti, miraggio per ogni
viaggiatore degno di questo nome. Parcheggiamo i fuoristrada ai piedi di
una piccola collina, che scaliamo in pochi minuti. Attraversata una
piccola pianura con delle formazioni rocciose a metà tra i funghi e dischi
volanti, ci
si apre un incredibile spettacolo di zolfo, acqua, fumi, zampilli di
vapore e laghi colorati. Da un punto di vista meramente geologico il
Dallol è un’area di vulcanesimo residuo, dal mio punto di vista sembra una
allucinazione di colori , forme ed odori. Esploriamo questo luogo di
spiriti inquieti finché il tramonto ci costringe a tornare al nostro
campo, dove è stata allestita una doccia da campo, ma il vento rende quasi
impossibili il potersi lavare. La branda mi è già diventata familiare.
2 Gennaio, Macallè
Ci alziamo presto, prima del sorgere del sole,
ma rimaniamo fermi al campo un bel po’, in attesa del permesso di
muoverci. Da una capanna subito dietro le nostre brande arrivano due
bambini; hanno la scabbia in testa ed i piedi pieni di pustole; Enrico
medica le piaghe dei piccoli Afar, che presi dei biscotti, se ne vanno
orgogliosi dei cerotti sui loro piedini.
Partiamo con i militari di scorta e
raggiungiamo il lago giallo, una grossa piscina di acqua solfurea, dove si
formano e gorgogliano bolle di colore giallo canarino intensissimo, che
macchiano la superficie livida del lago. Alle 10,45 siamo di nuovo ai
piedi della salita che porta alla piana del Dallol. Facciamo un lungo giro
ancora più bello di quello del giorno precedente, in senso orario,
ammirando come la natura riesca a sbizzarrirsi con le forme ed i colori.
Il bianco ed il giallo sono i colori dominanti, ma non mancano il verde ,
il rosso ruggine ed il marrone, che formano una specie di retinatura degli
specchi d’acqua. Mi colpisce soprattutto il giallo, un colore che non
siamo abituati a vedere in natura, se non nei prati di girasoli toscani o
di margherite di montagna. Ma qui ha il colore demoniaco dello zolfo, con
il suo odore che sembra uscito dall’antro di Caronte. Preferisco l’azzurro
del mare Mediterraneo o il verde dei boschi in primavera, ma questo
paesaggio allucinato con le sue fumarole, mi ricorda le forze primordiali
della natura, i vulcani che hanno creato la terra ed il magma sul quale
galleggiano le zolle dei continenti. Qui comincia la grande spaccatura
della Rift Valley, che fra qualche milione di anni, separerà questa
regione dall’Africa, e qui la crosta terrestre è sottilissima solo 20 km.
All’una si riparte, con l’ultimo grande
colpo di scena della Dancalia, che sa di addio più che di arrivederci:
sotto il sole infuocato del meriggio appare all’orizzonte l’ultima
carovana di cammelli, ordinati come in un ricamo, che marciano in fila
interminabile sulla lastra bianca del sale. Ci avviciniamo il più
possibile con i fuoristrada, per vedere il loro riflesso nelle pozze
d’acqua, e fissare con gli scatti e con la memoria questa immagine
fiabesca, da mille e una notte, destinata a scomparire con l’arrivo
imminente della civiltà. Davanti al nostro accampamento fa mostra di sé un
grosso Caterpillar cinese che sta preparando il massetto per la successiva
asfaltatura. Una interminabile striscia di bitume nero violerà entro pochi
anni
il bianco del mare di sale della Dancalia
e una lunga fila di camion rumorosi avrà il sopravvento sui lenti
cammelli. Ultimo pranzo al campo con riso e verdurine, ed alle 15 in punto
ripartiamo. Ci inerpichiamo dopo poco sulle montagne che ci separano
dall’altopiano, tra sterrati e gran lavori di costruzione di nuove strade.
Pochi pastori, un villaggio con case di lamiera, Berhale, donne dai
copricapi rossi e i soliti bambini che ti corrono incontro chiedendo
elemosine. Quando ci fermiamo per un pipì-stop ci coglie di sorpresa il
freddo; in realtà il termometro della macchina segna 22 °C, ma il
contrasto con la canicola della Dancalia si fa sentire. Alle 19 siamo a
Macallé, capitale della regione del Tigrai, e qui riprendiamo contatto con
una vera città, negozi, insegne, cartelloni pubblicitari, elettricità, con
un po’ di malinconia…. Ci sistemiamo all’hotel Hilltop, e la doccia calda
tira via gli ultimi residui di depressione dancala!
3 Gennaio, Macallè
Partiamo dall’hotel alle 8,45, sotto un cielo
azzurrissimo, immersi in uno splendido paesaggio africano, mentre sulla
strada si alternano pastori scalzi e ciclisti in assetto professionistico.
Dopo un’ora giungiamo al paese di Wukro, dalle case con le facciate
dipinte con colori accesi, viola, celeste, verde acqua. Attraversiamo la
strada fiancheggiata da alcuni edifici costruiti dagli italiani e poi
giriamo a sinistra su una strada sterrata fiancheggiata da grandi pianti
ombrose, sicomori, e ficus giganti. Mi viene in mente l’Aida, principessa
etiope : “o cieli azzurri, o dolci aure native, o verdi colli, o profumate
rive”.
Alle 10,30 giungiamo al monastero di
Abraha Wa Atsbeha, una chiesa semimonolitica , scavata dentro una grande
roccia in fondo ad un piccolo villaggetto di contadini e bambini che
vendono delle pietre fossili. Saliamo fino all’ingresso, dove viene ad
aprirci un sacerdote vestito di turchese, che si avvolge con un turbante
ed una tonaca bianca: apre il lucchetto di una grossa porta in legno ed
entriamo ad ammirare i pilastri intagliati nella roccia e gli affreschi
che ricoprono tutta la chiesa. E poi ci sono gli arcangeli Michele e
Gabriele a guardia delle porte del
sancta sanctorum e c’è San Giorgio, il patrone dell’Etiopia, che
uccide un drago azzurrino. Il sacerdote ci mostra un antico libro, scritto
in lingua gheez, che è per l’amarico quello che il latino è per
l’italiano, e poi accenna a percuotere i tamburi rituali di forma ovale
posti all’ingresso. Lungo la strada del ritorno vediamo belle scene di
vita agreste e le lunghe file davanti al mulino di donne con i loro sacchi
di cereali. Sulla strada bambini con ordinate divise da scuola di colore
turchese e blu cobalto. Ci stiamo dirigendo verso la sagoma frastagliata
dei monti del Gheralta e ci fermiamo per visitare una bella casa tigrina,
con un grande cortile sul quale si affacciano la stalla, il granaio, la
cucina ed il salotto buono. Pranzo al lussuoso Gheralta lodge, costruito e
gestito da una coppia italiana, ed arredato con un
melting pot di design italiano e
materiali africani. Ripartiamo ed alle 15 iniziamo la salita al monastero
di Abuna Yemata con un guida locale di nome Aile. Dopo 45 minuti di salita
non troppo ripida, bisogna lasciare le scarpe per arrampicarsi su una
ripida parete di roccia; mentre scaliamo la montagna , Aile e due suoi
aiutanti ci mostrano gli appoggi per le mani ed i piedi , facilitandoci la
salita del dislivello di quasi 500 metri. Ma in cima ci aspetta un
panorama impagabile su tutta la regione circostante e percorsi gli ultimi
metri a strapiombo, entriamo con grande emozione nella chiesa scavata
nella roccia, dove sostiamo qualche minuto prima che gli occhi si abituino
al buio. Le cupole e gli affreschi sono magnifici, ci sono i dodici
apostoli e c’è tutta la storia del fondatore, Abuna Yemata, uno dei nove
santi siriani che hanno evangelizzato l’Etiopia . Gli affreschi a detta
della guida risalgono al tredicesimo secolo, e sono in perfetto stato di
conservazione. Ci vengono mostrate anche delle antichissime Bibbia, con
bellissime miniature e caratteri neri e rossi. Mi viene quasi da piangere
per l’emozione che mi dà questo posto sacro; la discesa è più agevole, e
permette di ammirare lo spettacolo del tramonto sulla pianura con le
montagne del Gheralta che si tingono di rosso. Alle 18,15 partiamo per
tornare a Makallé, ma quando è ormai completamente buio, un camion con
motrice insabbiato su una salita ci impedisce di proseguire. Anche i
nostri autisti si prodigano per rimettere in movimento il bisonte della
strada, ma le ruote girano a vuoto e la frizione comincia ad emanare gran
puzza di bruciato. Dopo un’ora di vani tentativi, Jonas intravede una
cunetta laterale, che riesce a
percorrere
con il fuoristrada togliendoci dall’impiccio. Chissà quanto ancora durerà
la fila!
Arriviamo stanchi all’Hilltop alle ore
22,30.
4 Gennaio, Woldia
Dopo una notte agitata mi sveglio con dolori
allo stomaco e la febbre. Mi curo all’occidentale con Imodium e
Tachipirina e all’etiope con la ricetta infallibile di Tafari – 2
cucchiaini di miele e 1 di polvere di caffè mischiati insieme. Siamo
rimasti in 5, io, Anna, Roberta, Enrico e Claudio, con Tafari alla guida
di un minivan. Partiamo in direzione Lalibela, in una giornata
azzurrissima, di sabato che in Etiopia è il giorno del mercato, e la
strada è affollata di uomini e donne che a piedi si recano con merci ed
animali verso la città più vicina. Le donne hanno una bellissima
pettinatura a treccine che a metà testa diventano capelli arruffati.
Nonostante le mie precarie condizioni di salute non posso fare a meno di
ammirare i paesaggi africani mozzafiato,
e quando ci fermiamo a fotografare il lago vulcanico di Ashenge, vediamo
sbucare dal nulla più di venti bambini, laceri e malvestiti, che chiedono
penne, birr, e sono tutti eccitati per la nostra visita inattesa. Dopo una
sosta pranzo nel giardino di un ristorante che serve l’immancabile
capretto arrosto in belle terrine di terracotta con la brace sotto,
arriviamo alle 15 al mercato tigrino di Alamata, che andiamo a visitare.
Grande mercato africano polveroso, con pile di plastiche cinesi, animali
da pascolo, cereali, banane e tanta umanità. Questa volta siamo noi lo
spettacolo, non riusciamo a toglierci di dosso torme di bambini che
ripetono ad alta voce you, you, you
e ci seguono ovunque. Mi muovo con difficoltà, ma il poter apprezzare
questo luogo ancora così autentico, con i suoi personaggi colorati e
bizzarri e stabilire
a volte un breve ma sincero contatto
umano, è una di quelle cose che ti fanno dimenticare la fatica e la
durezza dell’Africa. Ritorniamo lentamente all’auto, tra pile di berberé,
sacchi di carbone e sguardi divertiti di curiosi. Ripartiamo alle 16,30 e
dopo un’ora ci fermiamo in una specie di osteria, dove si produce, si
serve e si consuma il tej, una
bevanda alcolica a base di miele, che viene servita dentro a dei fiaschi
arrotondati alla base. Anche qui grandi sorrisi, curiosità e richieste di
foto. Un posto che sembra fuori del tempo. Ci fermiamo a dormire in
un’anonima cittadina lungo la strada, Woldia, in un hotel un po’
fatiscente, come ci aveva preannunciato la Lonely, ma che ci serve a cena
un’ottima pizza.
5 Gennaio, Lalibela
Ci alziamo con comodo e partiamo alle 9,30 per
Lalibela. La strada sale verso il cielo tra paesaggi agresti e piantagioni
di canne da zucchero. In poco tempo arriviamo ad una quota di 3.500 metri
di altezza. C’è un gran numero di autobus di pellegrini in occasione del
Natale. Il calendario etiope è di derivazione copta e non coincide con il
nostro. Ha circa 7 anni di ritardo rispetto al gregoriano e il Natale,
detto Genna, cade il 7 gennaio. Lungo la strada ci sono sacerdoti con
ombrelli colorati, paramenti e croci copte, che invitano i pellegrini che
passano in occasione delle festività a donare offerte alle chiese vicine.
Anche Tafari ed io che sono un farangi, uno straniero, ci facciamo benedire e baciamo la croce.
Alle 11,45 al paese di Gashena lasciamo la strada principale e giriamo a
destra su una pista non asfaltata, insieme agli autobus dei pellegrini.
Procediamo tranquillamente , ammirando il bel paesaggio, quando una
sassata infrange un finestrino posteriore. Vediamo dei ragazzi sopra una
collinetta che scappano, Tafari corre al loro inseguimento ma deve
ritornare indietro a mani vuote. Con un po’ di agitazione ed il vetro
rotto arriviamo poco prima delle 2 a Lalibela, piena di gente e di
confusione, in mezzo ad una atmosfera di festa e di eccitazione. Lalibela,
chiamata la Gerusalemme dell’Africa, è in realtà un piccolo paese
polveroso di poche case e qualche negozietto. Passiamo accanto al Monte
Tabor e al fiume Giordano e ci sistemiamo all’hotel Beta Abraham, dove
pranziamo. Partiamo con una guida alla scoperta delle famose chiese
scavate nella roccia nel dodicesimo secolo, ordinate in due gruppi
distinti e separati dal canale Giordano. Attraversiamo una folla in
preghiera e pellegrini stipati sotto un palco, dove ci sono alcuni
sacerdoti che predicano, ed arriviamo presso Bieta Medhame Alem, la casa
del Salvatore del mondo. Questa chiesa monolitica è la più grande del
sito, con 76 pilastri esterni ed interni, ricavati dalla roccia tufacea,
alcuni dei quali restaurati. Oltre alla guida abbiamo anche un
guardiascarpe personale; ci mettiamo i calzini cinesi antizecche ed
entriamo all’interno. La chiesa è emozionante, nella sua grandezza e allo
stesso tempo semplicità, con i bellissimi pilastri, archi e capitelli
scavati, illuminati solamente dalla luce naturale che entra dalle
finestre, e migliaia di fedeli che si accalcano e ululano per la felicità.
Il sentimento di religiosità traspare dalla folla, le donne pur nella loro
povertà, sono avvolte nei loro manti bianchi, che creano un bel contrasto
con il colore uniforme della pietra. Traspare ovunque
nella folla un gran sentimento di
religiosità. Usciamo insieme alla scia dei pellegrini e sulla strada del
ritorno visitiamo il mercato di Natale, non proprio un
Weihnachtsmarkt tirolese…. Su
una brulla collinetta si vendono sciarpe tradizionali, libri, croci e code
di cavallo per scacciare le mosche. Nel frattempo che il sole tramonta
dietro le montagne imbalsamate, ce ne ritorniamo in hotel per recarci poi
a cena al Ben Abeba, un ristorante dalle forme avvenieristiche che
ricordano un luna park.
6 Gennaio, Lalibela
La cameriera che ci prende le ordinazioni per la
colazione è molto carina, ma come succede spesso qui, anche un po’
imbranata. Facciamo le ordinazioni singole, ma quando poi deve fare le
somme e prova a fare il riepilogo va in tilt. Quando finalmente riesce a
venirne a capo arriva la collega, alla quale ripete il tutto, e siamo di
nuovo da capo. Comunque alle 8 siamo in partenza, e acquistiamo 5 paia di
calze a testa, poiché nelle chiese è obbligatorio togliersi le scarpe, ed
i tappetti sono infestati di zecche e di pulci. Prima tappa alla chiesa di
San Giorgio, isolata dai due gruppi principali, e capolavoro assoluto di
Lalibela. La vista che ci appare dall’alto è grandiosa, autentico monolite
scolpito a forma di croce greca, tre piani sovrapposti senza necessità di
pilastri portanti ed un sistema di canali di scolo che le hanno permesso
di preservarsi intatta dopo quasi mille anni e quindi non dover subire lo
stupro del cemento e dell’acciaio che l’Unesco ha imposto a tutte le altre
chiese. E’ un delirio di pellegrini da tutto il paese e vi è una tale
ressa che non proviamo neanche ad entrare all’interno; gli stretti canali
di entrata ed uscita sono come un fiume in piena di manti bianchi
inestricabili. Ammiriamo lo spettacolo dal bordo superiore e da ogni
angolatura possibile e poi ci incamminiamo attraverso l’accampamento dei
pellegrini, dove bivaccano, tra teloni e giacigli, migliaia di persone in
attesa del Natale. Visitiamo una tipica casa di Lalibela, circolare come
un trullo, a due piani, con quello inferiore destinato agli animali, che
fungono anche da riscaldamento per quello superiore. Arriviamo ad un
grosso monolite detto la tomba di Adamo, dove è scolpita una grande croce,
ed un passaggio sottostante conduce alle chiese adiacenti del Golgota e
del monte Sinai, detta anche Bieta Mikael, dall’arcangelo che aiutò Mosè
aprendo le acque del Mar Rosso. Entriamo arrampicandoci sulla roccia ed
ammiriamo la splendida struttura scavata nella roccia ed i bellissimi
pilastri cruciformi. Nella chiesa del Golgota possono entrare solo gli
uomini, per pregare ed ammirare le sculture a grandezza naturale dei 12
apostoli, di cui però solo 4 sono visibili, essendo gli altri protetti
alla vista da un tendone che ci divide dalla parte più sacra, accessibile
ai soli sacerdoti, dove è conservata la copia dell’arca dell’alleanza.
All’uscita entriamo in un buio tunnel, scavato interamente nella roccia,
lo percorriamo in fila con tutti i pellegrini, e quasi alla fine, come una
Petra in miniatura, vediamo apparire la chiesa di Maria, Bieta Maryam.
Piccolo edificio circondato da un portico, con bellissime finestre
scolpite a forma di croci di vario genere e di svastiche. L’interno a tre
navate, è decorato con sculture e pitture, ispirate alla vita della
Madonna, come la natività e la fuga in Egitto. La Chiesa è forse la più
popolare per i devoti, e ad un certo punto è talmente tanta la gente che è
entrata, che non riusciamo più a muoverci e rimaniamo fermi per decine di
minuti, schiacciati dal flusso di pellegrini e di
farangi, fino a quando la nostra
guida riesce ad aprirci una via di fuga tra la folla. Fuori dalla chiesa
si sta svolgendo una cerimonia cantata, officiata da decine di sacerdoti
che indossano turbanti bianchi e paramenti di vario colore a seconda del
grado di importanza. Il canto monodico è bellissimo e antichissimo, ed è
accompagnato dalle percussioni dei tamburi dipinti e dal tintinnare dei
sistri, che tutti i celebranti muovono ritmicamente con le mani.
Spettacolo suggestivo per gli occhi e per le orecchie mentre tutto intorno
si svolgono le scene di vita più varie, con anche un battesimo officiato
da un prete con il turibolo. Saliamo in alto sopra le rocce per ammirare
le chiese, le cerimonie ed i pellegrini, e poi da bravi turisti andiamo a
riposarci dalle fatiche nel bel ristorante Seven Olives, tra fiori
tropicali, ottimo cibo e birre fresche. Un po’ di relax in hotel,
allietato dalla visita del patriarca di Addis Abeba, la massima autorità
religiosa del paese, un po’ come il papa, che fa l’ingresso trionfale
nella hall, tra fiori e applausi. Riprendiamo la visita del secondo gruppo
di chiese, la Gerusalemme celeste, che si rivelano un po’ meno
interessanti, o forse sta solo venendo meno lo stupore. Dapprima le chiese
affiancate di Gabriele e Raffaele, che una volta costituivano il palazzo
reale di Lalibela, inespugnabile per la sua posizione a picco sulla
roccia, poi Bieta Merkourios e Bieta Emmanuel, completamente monolitica,
ed infine Bieta Abba Libanos, dedicata ad uno dei novi santi siriani, a
differenza di tutte le altre ricavata dentro una roccia, e dall’interno
microscopico. Visitata questa ultima chiesa lasciamo una mancia al nostro
fidato guardiascarpe e ci concediamo un po’ di shopping nei negozietti,
tra croci e oggettini vari. Dopo la cena all’hotel Lal, ci rechiamo a
piedi alla chiesa del Salvatore per le cerimonie notturne della vigilia di
Natale. Entriamo dall’ingresso principale e subito si offre il colpo
d’occhio di migliaia di corpi distesi per terra, coperti di veli bianchi
che sorreggono le fiammelle delle candele votive. Recarsi presso l’area
davanti alla chiesa, dove si sta svolgendo la cerimonia, è un’impresa
delirante. Tafari ci fa strada tra la folla che spinge e si accalca,
aprendo un varco tra le persone in fila ed i corpi distesi dei dormienti.
Riusciamo, dopo molti sforzi, a sistemarci precariamente su una roccia in
alto a strapiombo, dalla quale si possono vedere i movimenti dei
sacerdoti, al ritmo dei canti. La situazione è un po’ precaria, e complice
anche la stanchezza e la scomodità non si riesce ad apprezzare in pieno la
cerimonia. Intorno a mezzanotte decidiamo di ritornare indietro, e
facciamo la strada al contrario tra migliaia di corpi distesi, venditori
di candele e sacerdoti che pregano e porgono la croce per la benedizione.
Visita in notturna a san Giorgio, suggestiva sotto le stelle e nel
silenzio della notte africana.
7 Gennaio, Bahir Dar
Anche
questa mattina qualche problema a colazione con la cameriera, e nonostante
i riti del giorno di Natale, alle 9,30 siamo in marcia. Oggi finisce
ufficialmente anche il digiuno del mese di Natale e moltissimi pellegrini
si sono rimessi in marcia per ritornare a piedi nei loro viaggi, anche a
40-50 km di distanza. Le strade sono affollatissime e ancora piene
dell’atmosfera festiva. La tappa di oggi prevede 310 km fino a Bahir Dar
sul lago Tana, e i primi 46 Km sono lo stesso sterrato dell’andata. Gli
etiopi usano ancora molte parole derivate dall’italiano, ex paese
colonizzatore, tipo caramella, birra, gomma, asfalto: lo sterrato viene
chiamato pista. Fortunatamente questa volta tutto fila liscia sulla pista,
nessuna sassata, ma solo un colorato funerale. A Gashena riprendiamo la
strada principale in direzione Woreta, con la gente che non si sposta
dalla strada ed i tanti che vorrebbero un passaggio, ma vedendo una
macchina di farangi si ritirano
sconsolati. Siamo a Natale, un giorno di festa e c’è molto fermento in
giro e pochissimo traffico a parte qualche cisterna che trasporta benzina
dal vicino Sudan. Ore 12,45 sosta caffè in un poverissimo villaggio sulla
strada, solito tavolino lercio che ci viene pulito per l’occasione, nugoli
di mosche e vespe che cerco inutilmente di scacciare tra le risa dei
bambini che ci osservano da vicino. Per festeggiare il Natale copto ci
mangiamo 2 torroni che Enrico a portato da Cremona, il tutto sotto gli
sguardi meravigliati dei bambini poveri. Dopo un’ora di macchina giungiamo
nella città universitaria di Debre Tabor, Debre in amarico vuol dire monte
o monastero. Il ristorante è pieno di ragazzi locali che festeggiano il
Natale. Ripartiamo alle 15,10 e dopo mezz’ora siamo al bivio che a destra
indica Gondar, e a sinistra Bahir Dar a 61 km. Si comincia ad intravedere
la distesa del lago Tana, il lago più grande dell’Etiopia, 8 volte il lago
di Garda ed alle 16,30 attraversiamo il ponte sul Nilo Azzurro ed entriamo
in città. Bahir Dar è il capoluogo della regione Amara ed è una città che
appare ordinata e tradizionale, dopo tanti giorni tra capanne e strade
polverose. La Lonely la chiama la Riviera Etiope. Ci sistemiamo in un
bell’albergo, e usciamo subito a piedi dirigendosi verso il lago. La gente
è molto più di città, ben vestita, ci sono tanti ragazzi e ragazze
sorridenti. Giungiamo sul lago, in una atmosfera un po’ retrò anni 60;
costeggiamo la sponda del lago, dove si affacciano dei bellissimi alberi
secolari con tronchi e fronde enormi ed arriviamo in un bel posto in riva
al lago dove c’è tutto prato inglese e alcuni chioschi che servono da bere
e da mangiare. C’è una guardia armata che impedisce l’accesso ad una
piccola penisola dove c’è una folta colonia di pellicani che si riposano
al tramonto ed una selva di papiri. Anche noi ci concediamo un aperitivo,
birra e patatine, per il primo happy
hour in salsa etiope, in mezzo a coppiette di innamorati e bambini con
i cappellini rossi da Babbo Natale. A cena andiamo in un locale vista
lago, che sembra un grosso dancing anni 70, e ci servono un pesce al
cartoccio, un po’ piccante, ma veramente buono. Si cominciano già a tirare
le prime somme del viaggio.
8
Gennaio, Bahir Dar
Quando ancora non sono le 8 saliamo su un barchino stile Promessi Sposi,
con un telo azzurro, e partiamo per la navigazione sul lago Tana. Siamo
noi 5, Tafari e un ragazzo al timone che ci porta sul lago immenso, che si
estende a perdita d’occhio come un mare che con la luce del mattino ispira
serenità e calma.
Incrociamo
una barca fatta di papiro, ed osserviamo le isole ricoperte di una fitta
vegetazione. Il lago ospita 37 isole e 29 monasteri , fondati tra l’11 ed
il 16 secolo. Dopo meno di un’ora sbarchiamo sulla penisola, dove ci
aspetta una guida che deve portarci a visitare il monastero più famoso,
quello di Uhra Kidane Mehret. Ci inoltriamo dentro una bella foresta, tra
alberi enormi e piantagioni di caffè con i frutti rossi, piante di
qum-quat e altre meraviglie botaniche. Ai lati ci sono molte bancarelle
che vendono dei prodotti artigianali, in realtà di qualità molto modesta.
Dopo un bel quarto d’ora di piacevole passeggiata giungiamo al monastero,
che ha la tipica forma circolare con tre camere concentriche e tetto
conico sormontato da 7 uova di struzzo a simboleggiare i giorni della
settimana ed i sacramenti. Ci togliamo le scarpe ed entriamo ad ammirare
gli affreschi all’interno, sulle pareti che proteggano la camera
invalicabile con l’arca dell’alleanza. I dipinti risalgono al 16 secolo,
ma nel 18 secolo furono aggiunti nella parte bassa della parete ulteriori
affreschi a seguito del tentativo fallito dei portoghesi di imporre il
cattolicesimo, testimoniato dai volti delle figure che da neri diventano
bianchi. Sono affreschi molto belli, che raccontano le vite dei santi,
miracoli e vangeli più o meno apocrifi, il martirio degli apostoli, il
tutto in un tripudio di colori e di simboli, volti e vesti tipicamente
africani. Molto interessante è la parete con dipinti i miracoli di Maria,
madre di Dio e della Chiesa, particolarmente onorata dagli etiopi che le
attribuiscono più di 300 miracoli. Mi colpisce molto la storia affrescata
del cannibale, che dopo aver divorato la moglie, amici e parenti, un
giorno offre un bicchiere d’acqua ad un mendicante che chiedeva aiuto in
nome di Maria. Quando muore ed i diavoli lo stanno precipitando
all’inferno, intercede la Madonna, ed un angelo mette sui piatti della
bilancia da un lato i corpi delle persone da lui divorate e sull’altro il
bicchiere d’acqua, che fa pendere a suo favore la bilancia, salvando così
il
cannibale dalla dannazione. “Dio perdona tante cose per un’opera di
misericordia”, per usare le parole del nostro amato Manzoni. Anche qui le
porte che conducono all’interno sono affrescate con enormi figure degli
Arcangeli Michele e Gabriele. Visitiamo anche un piccolo museo annesso con
libri dipinti molto antichi, copricapi di sacerdoti, e paramenti sacri.
Scendiamo con calma verso la barca, contrattando e facendo piccoli
acquisti. Prossima tappa, forse per un malinteso, andiamo a finire su un
isolotto dove c’è un monastero femminile, Entos Eyesu Monastery, dove a
parte un paio di suorine che si fanno fotografare non c’è praticamente
nulla di interessante. Tafari dice che abbiamo acquistato un biglietto che
ci consente solamente due ingressi e pertanto ci portano a vedere il punto
del lago da cui nasce il Nilo azzurro, di cui percorriamo con il barchino
il primo tratto, senza vedere però l’ombra degli ippopotami promessi ma
solo un misero airone. Rientriamo a terra, ed alle 3 siamo in macchina per
andare a visitare le cascate del Nilo azzurro. Facciamo più di un’ora di
sterrato, e arriviamo ad parco, dove assoldata l’ennesima guida, entriamo.
All’andata facciamo il giro breve, e utilizziamo un barchino per recarci
sulla sponda opposta del fiume, dove ci incamminiamo in un superbo
paesaggio africano, tra alberi enormi e piantagioni di canna da zucchero e
di qat. Le cascate sono molto belle, immerse al tramonto in un paesaggio
selvaggio, anche se siamo nella stagione secca e considerato che una diga
per una centrale idroelettrica ne ha ridotto notevolmente la portata.
Ammiriamo lo spettacolo da tutte le angolazioni possibili, avvicinandoci
quasi fino a sotto, dove si sentono già gli schizzi di acqua. Ritorniamo
per la via lunga, e superato un lungo ponte sospeso, ci incamminiamo per
una bella passeggiata di più di un’ora, attraversando villaggi e un antico
ponte in pietra. Ritornati sulla strada principale, ci fermiamo presso una
casa, dove una donna sta preparando sul fuoco l’injera, il tipico pane spugnoso etiope e dopo le foto di rito ce ne
torniamo in hotel. Ottima cena al nostro ormai ristorante di fiducia, il
Lake Shore.
9
Gennaio, Addis Abeba
Alle 7 partiamo per l’aeroporto, dove salutiamo
Tafari che rientra ad Addis con la macchina, percorrendo 530 km.
L’aeroporto di Bahir Dar è ancora in costruzione, e a parte il banco del
check-in sembra un cantiere, ma
il volo dell’Ethiopian Airlines parte con perfetta puntualità alle 9 e
dopo un’ora di navigazione tranquilla atterra nella capitale. Lasciate le
valigie all’hotel Ambassador, usciamo per un giro della città,
the vibrant city of Africa,
secondo alcuni cartelloni pubblicitari, in realtà un’anonima metropoli del
terzo mondo, dove vivono più di tre milioni di persone, priva di grosse
attrattive, se non fosse per le jacarande in fiore, e dove in mezzo al
disordine, i cinesi stanno costruendo strade e ferrovie. Attraversiamo la
città e saliamo con un auto in cima ad una collina, dove sorgeva il
palazzo dell’imperatore Menelik che alla fine dell’ottocento fondò la
città, su consiglio della moglie, l’imperatrice Titu.
Visitiamo un piccolo museo, la chiesa
circolare Entoto Maryem e quello che resta del palazzo reale, uno dei più
scalcinati palazzi reali che abbia mai visto. E pensare che però sono
quelli che ci inflissero la sconfitta umiliante di Adua…. A pranzo andiamo
in un bel ristorante, dall’atmosfera
lounge e le poltroncine di pelle nera e subito dopo visita al museo
etnografico, questo davvero molto interessante, situato in un bellissimo
palazzo, dapprima sede per il governatore italiano e poi palazzo del negus
Hailé Selassié, di cui sono state conservate le camere da letto ed i
bagni. Al primo piano l’esposizione è dedicata alle tante etnie che
popolano l’Etiopia e alle loro usanze dalla nascita alla morte. Al piano
superiore una bellissima collezione di arte religiosa, con croci, oggetti
sacri, icone, e una sala dedicata agli strumenti musicali. Il museo si
trova nel rigoglioso giardino dell’università, pieno di fiori e piante:
davanti al museo c’è un orribile monumento in cemento armato, che ricorda
la fine di Mussolini, una scala a chiocciola con un gradino per ogni anno
di regime a partire dal 1922. Andiamo a spendere gli ultimi birr nei
negozietti di souvenir del grande mercato, e poi riposo in hotel prima del
lungo volo notturno.
L’ultimo sogno dancalo, in aereo
Mi
sono addormentato sul volo da Addis Abeba al Cairo, e ho sognato una
carovana del sale con migliaia di cammelli , che procedevano lentamente in
fila ordinata con il loro carico prezioso, sotto lo sguardo attento dei
pastori afar, e che dopo aver attraversato la collina del Dallol e reso
omaggio ai suoi spiriti, giungevano in tempo a Lalibela e sostavano a san
Giorgio per la benedizione di Natale; poi attraverso le strade
dell’altopiano, dopo essersi dissetati nelle acque del Lago Tana,
passavano in mezzo a file di cinesini chini ad asfaltare le nuove
autostrade ed in ultimo giungevano ad Addis Abeba, in mezzo al traffico ed
ai grattacieli in costruzione.
Qui finalmente, potevano riposarsi dalla
fatica del viaggio , e di fronte a migliaia di curiosi raccontare la loro
storia per poi riprendere la strada di casa carichi non solo di merci
preziose ma soprattutto delle
esperienze
fatte e del
mondo scoperto, perché in fondo il
viaggio non finisce mai e ricomincia non appena
si raggiunge una nuova meta.
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